“Un sogno chiamato Alpamayo” di Massimo De Paoli

La spedizione nella Cordigliera Bianca peruviana nel racconto di Massimo De Paoli – un grande amico – “Un sogno chiamato Alpamayo”! L’articolo è stato pubblicato da Massimo sulla rivista del CAI: Montagne 360 nel 2015. È il racconto del viaggio di tre amici alpinisti, con un desiderio coltivato per anni da Massimo: salire la perfetta piramide di ghiaccio della famosa cima della Cordillera Blanca.

In discesa dal colle sud 5600 m verso il campo alto sul ghiacciaio, alla base della parete sud ovest dell’Alpamayo

Siamo partiti dall’Italia il 10 agosto, con in tasca il patrocinio CAI, io, Riccardo Stacchini e Michele Piva, un veronese trapiantato a Rimini e due sammarinesi, alpinisti per passione, soprattutto io e Riccardo, ma non certo “professionisti”, in realtà tutti tre amici veri da oltre 20 anni perché condividiamo una comune grande passione per il volo libero in deltaplano.

Una curiosa e atipica cordata

Riccardo, indubbiamente il più forte di noi alpinisticamente parlando, ex atleta della nazionale sammarinese di sci, ha mollato il posto sicuro in banca per fare il maestro di sci, e adesso vive sulle Alpi buona parte dell’anno. Uno che pratica tutto quel che si può praticare in montagna.

Michele invece è da sempre un animale acquatico, che abbiamo strappato all’acqua liquida e portato sull’acqua solida. Olimpionico di nuoto in gioventù e da sempre (e tutt’ora) surfista instancabile, ha raccolto la nostra provocazione del Perù e per mesi si è lasciato trascinare su vie di neve e ghiaccio, dall’Abruzzo al Monte Bianco, in un tour de force di preparazione tecnica e fisica, che si è concluso con una notte all’addiaccio tra le pietre della cima del Corno Grande del Gran Sasso pochi giorni prima della partenza, a quasi 3000 metri, sotto la pioggia. 

Una curiosa e atipica cordata

Passando anche per un sabato pomeriggio trascorso dentro la cella di surgelazione di un amico di Riccione che produce piadine, a meno 30°C, per provare la tenuta dei sacchi a pelo. E poi vengo io, innamorato delle montagne da sempre, ma innamorato anche del Perù, dopo aver letto un libro da bambino sulla storia degli Incas, e dove sono stato due volte con la famiglia negli anni scorsi a fare il turista, a vedere quei luoghi da leggenda immaginati nei libri, e dove sognavo appunto di tornare da alpinista.

L’obiettivo era quello di salire tre o quattro di quelle splendide vette della Cordigliera Bianca, ma il vero obiettivo era l’Alpamayo, inutile nasconderlo. Io me n’ero invaghito come può succedere con una donna. Un cuop de foudre che mi segnava da anni. E avevo contagiato gli altri due. Almeno la volevamo vedere quella montagna…! Personalmente un’idea che per anni ho ritenuto fin troppo ambiziosa. Nel 2013 avevamo invece contattato l’associazione peruviana di guide “Don Bosco en Los Andes” di Marcarà, di cui ci avevano parlato, e lì è iniziata la pianificazione del nostro sogno.

La Don Bosco en Los Andes

è nata dall’iniziativa di Padre Ugo De Censi, salesiano lombardo dell’Operazione Mato Grosso (OMG), in Perù dal 1976. Un personaggio veramente carismatico e vulcanico, seguito dall’Italia da tantissimi volontari che operano o hanno operato in Perù e in altri paesi del Sudamerica per i più poveri. Il supporto e l’organizzazione della Don Bosco sono stati per noi determinanti: efficientissimi, professionali, premurosi, e veri appassionati di montagna.

Per noi è stato un incontro determinante, da tutti i punti di vista. Ci ha consentito di concentrarci sull’essenziale, senza dover dedicare tempo agli approvvigionamenti di cibo, a cercare i portatori, gli arrierios (conducenti di muli e cavalli, usati per i lunghi avvicinamenti), e tanto altro. A questo hanno pensato loro, spianandoci la strada, sulla base però di un nostro programma, condiviso con loro. 

La guida

assegnataci, il bravissimo Miguel Martinez, ci ha anche portato fortuna, dato che in una strana stagione, meteorologicamente molto instabile, abbiamo sempre centrato giornate splendide nelle date delle salite.

Le attività e quindi le entrate della Don Bosco en Los Andes, oltre ad aver creato lavoro per figli della cordigliera che diversamente sarebbero scappati a Lima, servono anche a finanziare le opere dei volontari dell’Operazione Mato Grosso, che in quella splendida regione di Ancash costruiscono case per i più poveri, fanno funzionare asili, scuole, due efficientissimi centri di formazione professionale che abbiamo visitato, hanno costruito un ospedale in una vallata dove non ne esistevano, e tanto altro, inclusa la costruzione e la gestione di 4 rifugi in posizioni strategiche in diverse “quebradas” (valli interne) della Cordigliera Bianca, diventati punti di riferimento e di appoggio fondamentali per trekker e alpinisti.

A Lima, prima dell’aereo per rientrare in Italia, abbiamo voluto conoscere padre Ugo

tanta era la curiosità di incontrare di persona un uomo da cui hanno avuto origine così tante opere e che ha cambiato volto e cuore a tantissima gente. Lo abbiamo incontrato nella sua casa mentre faceva colazione con caffelatte e un mix impressionante di medicine! Un novantaduenne apparentemente inossidabile, tanto carismatico quanto lucido, che ci ha accolti come vecchi compagni di strada, ascoltando i nostri racconti e chiedendoci di dare il nostro aiuto, per come avremmo potuto. Personalmente mi ha ricordato tanto un vecchio sacerdote milanese morto 10 anni fa, che molto ha inciso nella mia vita, e che come padre Ugo emanava qualcosa di simile alla Santità solo a vederlo e sentirlo parlare.

Di entrambi i frutti concreti sono talmente evidenti da non poter essere ignorati da nessuno. A prescindere dal credo religioso. E anche a seguito della richiesta di padre Ugo abbiamo poi partecipato ad alcune serate tra Romagna, Marche e Veneto per raccontare della nostra spedizione e delle opere dell’OMG in Perù, assieme ad alcuni dei loro volontari italiani, con cui è nata in questi mesi una bella amicizia. A partire da Pierluigi Valente, per tutti “Bigi”, gestore del Centro Casarotto di Marcarà, nostra base di appoggio nella valle di Huaylas.

Campo alto sul ghiacciaio

Da lì, per la prima uscita di ambientamento e acclimatamento abbiamo percorso la Quebrada Llanganuco, dove fin dall’inizio impressiona la parete nord dell’Huascaran Norte, 6.664 mt segnata ancora oggi da quell’unica via lunga, difficilissima e pericolosa che Renato Casarotto salì da solo in 17 giorni nel lontano giugno del 1977. Una parete veramente “grandiosa e impenetrabile”, come scrisse lui stesso.

Da un tornante della strada polverosa che sale verso un passo, a quota 3.900 mt siamo saliti al Rifugio Perù, piazzato in una stupenda posizione a quota 4.760 mt, su una specie di terrazza panoramica naturale circondata dalla straordinaria bellezza delle cime dei Nevados Huandoy, del Pisco, del Chopicalqui, ma soprattutto degli Huascaran nord e sud, che visti da lì incutono rispetto e timore.

I rifugi della Don Bosco

sono, a tutti gli effetti, rifugi “alpini”, costruiti secondo i nostri standard, quindi ben fatti, accoglienti, e in posizioni veramente ottimali. Per poterli costruire padre Ugo dovette trattare negli anni ’90 direttamente col governo Fujimori. Sono stati realizzati a costo zero, grazie esclusivamente al lavoro volontario di centinaia di persone: volontari della OMG e tanti ragazzi peruviani degli oratori. Ci sono fotografie all’interno del rifugio Perù che ritraggono lunghissime file di persone che portano in spalla mattoni, pietre e travi. Tre chilometri per 900 mt di dislivello. Nessun elicottero e nessuna teleferica!

Attualmente il Rifugio Perù è gestito da Massimiliano di Lecco, volontario della OMG, e così sembra veramente di essere a casa.  Non è un caso infatti che assieme a statunitensi, francesi e spagnoli, noi italiani siamo i maggiori frequentatori di quelle montagne. Così in una regione lontana e sperduta assieme allo spagnolo, la nostra è la lingua più parlata, da tutti.

Poco distante dal Rifugio Perù

c’è uno degli angoli più belli di tutta la regione: la famosa Laguna 69 di un blu che sembra finto,

Laguna 69 “Un sogno chiamato Alpamayo”

nella quale si specchia la spettacolare parete sud del Nevado Chacraraju 6.112 mt, percorsa verticalmente da una serie interminabile di canalete di ghiaccio, parallele una all’altra. Uno dei tanti 6000 che conta pochissime vie di salita e pochissime ripetizioni, dove il primo a calcarne la cima fu un certo Lionel Terray nel 1959.

Nei giorni seguenti, con muli e portatori, siamo entrati nella Quebrada Ishinca, dove abbiamo fatto base all’omonimo rifugio a quota 4.300 mt per le salite sul facile Nevado Ishinca (5.530 mt) e poi sul grandioso e non semplice Nevado Tocllaraju, (6.050 mt), che in lingua quechua significa “trappola di ghiaccio”, lungo la gelida e ventosa cresta nord. Una salita spezzata in due giornate, con un campo alto in tenda sulla morena all’inizio del ghiacciaio, a quota 5.000 mt. Dalla vetta di questa bellissima montagna, salita al buio delle prime ore del mattino, lo spettacolo del sole che sorge dal mare di nubi sopra alla foresta amazzonica ad est è stato da brividi! E non solo per i 15 gradi sotto lo zero…

E alla fine è stata la volta del nostro vero e più ambizioso obiettivo: l’Alpamayo

5.950 mt, e la sua straordinaria parete sud ovest. Aiutati dal buon Dio che ci ha regalato anche in questo caso giornate splendide, prima che guastasse il tempo (dal pomeriggio del giorno stesso!) il 25 agosto, dopo tre giorni di avvicinamento lungo la bella e selvaggia quebrada Santa Cruz,  e tre notti in tenda a temperature man mano sempre più rigide, abbiamo salito in piolet i 500 metri di dislivello della via dei francesi, la direttissima alla vetta, all’inizio facile ma che poi “impenna” sempre più, fino agli 80° circa dell’ultimo tratto. 

Trovando buone condizioni di ghiaccio e senza avere nessuno davanti, ma una cordata di statunitensi dietro. Quindi in una situazione veramente ideale.

Oltre il colle sud dell’Alpamayo, a quota 5600 m

11 tiri di corda a salire, senza grossi problemi se non il freddo, 8 calate in corda doppia a scendere, e i nostri portatori Cirillo e Antonio che alle 9.45 ci hanno accolto di ritorno al campo alto, sul ghiacciaio alla base della montagna, con una fantastica minestra calda.

“Un sogno chiamato Alpamayo” di Massimo De Paoli

Con gli occhi, i cuori e gli animi ricolmi di bellezza e di gratitudine per un’esperienza veramente grandiosa (e parecchi amici in più) dopo 24 giorni siamo tornati a casa. Non solo avevamo raggiunto i primi due obiettivi prefissati: divertirci e tornare a casa dalle nostre famiglie (!), ma anche il terzo: scalare l’Alpamayo. Anche i sogni apparentemente proibiti a volte si possono realizzare. Bisogna provarci.

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Roberto Gardino

Sono un insegnante di Educazione Fisica, appassionato di montagna, sempre alla scoperta di nuove mete. Ho fondato, con amici, la Compagnia della Cima. Sono attento all'educazione dei giovani, andando spesso in montagna con gruppi numerosi.

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