Walter Bonatti (Lectio doctoralis)

Lectio doctoralis tenuta  all’apertura dell’anno accademico 2004-05 dell’Università dell’Insubria da Walter Bonatti: “La cultura della montagna e i suoi valori“. (In quell’occasione la Facoltà comasca di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università degli Studi dell’Insubria, delibera all’unanimità di proporre Walter Bonatti per il conferimento della laurea specialistica Honoris Causa in Scienze Ambientali).

Walter Bonatti Lectio doctoralis

Le cose che dirò, parlando del mio vissuto, vogliono avere un solo scopo, quello di richiamare alla memoria ciò che i saggi da sempre indicano come via da seguire.

Ciascuno di noi, dicono, deve essere l’artefice di se stesso nel corso del proprio arco vitale. Da ciò è facile interpretare che costruirsi la propria entità spirituale, affermarsi e crescere deve essere soltanto una nostra volontà, un nostro bisogno; e l’impegno che ciò comporta esige passione, perseveranza e coerenza nei sani principi in cui credere. Se ne avrà un grande risultato, quello di sentirsi forti, saldi e conseguentemente vincitori. Nulla quindi ci si deve attendere come regalo dagli altri ancor meno, dalla cosiddetta fortuna.

Poiché la “buona stella” è soltanto quella che sappiamo creare per noi stessi passo su passo, anno dopo anno, di esperienza in esperienza; e tutto verrà pagato sulla propria pelle. Questa, dunque, non è fortuna, ma continuo crescere. A riaffermare quanto ho appena detto, ecco l’esperienza di un’intera vita, la mia vita.

Non sono montanaro di nascita

ma sono giunto alla montagna per pura passione, essendo cresciuto nelle terre più basse del mio Paese: la pianura Padana. Dirò subito che il mio input avventuroso, che diverrà la costante della mia vita, è dato senza dubbio dalla curiosità, una irriducibile curiosità via via sempre più associata alla fantasia, al sogno, al bisogno insopprimibile di dare al tutto una concreta realtà. Ma a formare il mio carattere ha molto contribuito una adolescenza dura e difficile, modellata non solo dalla disfatta di una guerra mondiale, ma anche dal conseguente e netto crollo dei valori umani e dalla mancanza di prospettive concrete, carenti in quel periodo nel mio Paese. Questo capitava a un ragazzo che si affacciava giusto allora alla realtà della vita.

Come ripercussione, tali precedenti avrebbero potuto tradursi in degradazione morale per i più deboli, oppure nell’esatto suo contrario ossia in positiva potenzialità. Fu questa seconda opzione la mia fortunata alternativa.

Ancora molto giovane, a diciotto anni,

ho iniziato a praticare l’alpinismo di massimo livello che mi porterà, in meno di un anno, a ripetere le più difficili scalate compiute fino allora dai miei predecessori. Ma fare dell’alpinismo estremo per me non è stato tanto una fuga dal campare quotidiano, pur comprensibilissima, e neppure è stata una ribellione alle miserie di una società ben poco stimolante, a quel tempo; è stato invece, e soprattutto, un bisogno ostinato e irriducibile di raggiungere e sempre più raggiungere.

Da allora e per i successivi sedici anni, mi sono mosso sulle Alpi e su altre cime del mondo, inseguendo i miei sogni come mezzo per vivermi e andare oltre. Penso che sia proprio quando sogni ad occhi aperti che concepisci le cose più attendibili alla tua sensibilità. Le mie imprese infatti hanno cominciato a esistere nel momento stesso in cui prendevano forma nella mia mente. Tradurle poi nella realtà non è stato che un seguito logico di quella prima scintilla, di quella prima invenzione. Quando ho immaginato quelle che sarebbero risultate le mie scalate più significative, mi trovavo certamente in uno stato d’animo particolare, direi quasi irreale, dove tutto può apparire possibile, persino normale.

L’aver poi materializzato quelle idee di scalata fu soltanto una conseguenza naturale e scontata, sicuramente non più valida che averle concepite. È quanto immagini, dunque, che vivi intensamente, come è soltanto quando credi che inventi per davvero. Così, impresa dopo impresa, lassù mi sono sentito sempre più vivo, libero, vero. Ho anche potuto soddisfare il bisogno innato che ogni uomo ha di misurarsi e di provarsi, di conoscere e di sapere. Aggiungo, e sottolineo che ho sempre obbedito alle emozioni nonché all’impulso creativo e contemplativo.

Fin dall’inizio l’alpinismo era stato per me avventura

non poteva e non doveva essere altra cosa e l’avventura ho sempre voluto viverla a misura d’uomo e nel rispetto della tradizione. Presto sarebbe diventata un affascinante modo di essere e di conoscersi, avrebbe giovato anche al mio benessere fisico e intellettuale.

Ho sempre ammirato alpinisti di ogni epoca, ma non ho mai preso nessuno a modello. Ho dunque letto, visto, ascoltato e valutato molti della montagna, ma soltanto per creare me stesso, non per imitarli. È mia convinzione che l’alpinismo migliori soltanto chi è portato a migliorarsi; non migliora certo gli inerti o gli spavaldi. Non è dunque il fatto di essere alpinista che arricchisce l’uomo bensì, l’ho già detto, ciò che egli si porta dentro crescendo in un certo modo, con coerenza.

Tutte le mie scalate

sono state ugualmente importanti per me, a prescindere dalla difficoltà e dall’impegno richiesto. Quindi le ricordo tutte allo stesso modo, con appagamento, perché tutte sono state da me sognate, desiderate, volute, sofferte, gioite; e tutte sono state a mia misura, quindi giuste per me nel momento in cui sono avvenute. Si sa che le grandi prove o temprano o annientano: è la storia della vita. Ne consegue che ognuno di noi è la somma, quindi il risultato delle proprie esperienze. Le mie mi hanno fatto crescere e così i miei limiti si sono spostati in avanti.

Walter Bonatti, 1964

È stato praticando l’alpinismo tradizionale

che ho potuto entrare in sintonia con la Grande Natura; ma fu soltanto l’alpinismo solitario – intendo quello spinto ai massimi livelli – a sprigionare l’energia più nascosta nel mio spirito. Ho potuto così conoscere ancor meglio i miei perché e i miei limiti; inoltre ho imparato a prendere da solo le decisioni estreme, a misurarle con il mio metro e a pagarle, naturalmente, sulla mia pelle. In sostanza, l’alpinismo solitario è stato per me un’efficace scuola formativa, una condizione preziosa, dunque, un vero bisogno a volte.

Perciò riaffermo la mia convinzione che, in una scalata, nulla è più proficuo della solitudine e dell’isolamento per acutizzare la propria sensibilità e amplificare la propria emozione. È stato proprio grazie ai preliminari appena delineati che ho potuto compiere ogni volta un viaggio affascinante dentro me stesso per meglio scrutarmi, capirmi, e anche per meglio comprendere gli altri e il mondo attorno a me. Adesso, lo posso dire, io conosco meglio me stesso, ciò che ho fatto, e so bene anche quello che voglio da me e dagli altri.

Di costoro naturalmente respingo il malanimo, quando ci sia, accetto invece la critica: può essere anche sfavorevole, basta però che sia costruttiva. La critica non costruttiva è come aria per me: non mi tocca. Si dice che io abbia avuto fortuna, ma io non credo alla fortuna, né al destino. Il destino, lo ripeto, penso sia quello che sappiamo creare per noi stessi, con la sola limitazione dell’imponderabile.

Sono passati tanti anni dai tempi delle mie scalate

eppure la montagna ha lasciato in me, ancora vive e indelebili, le immagini imponenti delle sue architetture, dei suoi profili superbi, estremi, appesi al cielo; alieni a volte dalla misura dell’uomo e certamente fuori dalle possibilità che lo limitano. Con gli occhi della mente rivedo ancora quelle gelide e silenziose altitudini, in ogni dettaglio; e, come un tempo, i miei pensieri lievitano, nel costante fluire dalle cose all’immaginazione e dall’immaginazione alle cose, liberando nuove percezioni, dimensioni ignote che sfuggono sempre al tentativo di spiegarle. Quanto è vero che comprendere il bello significa possederlo.

Questo e molto ancora, è quanto ho raccontato nei miei libri di ricordi, capitolo dopo capitolo fino al giorno della mia scalata invernale sulla parete nord del Cervino, nel 1965. Perché fu proprio allora che conclusi la mia vicenda alpinistica. Avevo sentito che quella mia avventura, condotta sempre con mezzi classici e leali, non avrei più potuto spingerla ancora più in là, se non accettando i compromessi delle nuove tecniche con tutto il loro armamentario, da me sempre rifiutati.

Walter Bonatti nel 1965, anno della salita in solitaria invernale della Nord del Cervino

E qui, seppur a tanti anni dall’epilogo del mio alpinismo, voglio esporre alcuni concetti, per certuni forse discutibili, ma attinti a quelle che sono state le mie motivazioni di alpinista. Ad indurmi a parlarne è il sempre più palese disorientamento che attualmente confonde e sconvolge il mondo della montagna, fattosi orfano dei valori che ha ritenuto superati e al tempo stesso in affannosa ricerca di spinte sostitutive in cui credere.

Dato per scontato che ognuno è libero di pensare come vuole, di darsi le regole più convenienti alle proprie aspirazioni, libero quindi anche di praticare a proprio modo l’attività di scalatore, anch’io, per le stesse ragioni, ho scelto a mio gusto e misura un alpinismo confacente alla mia ideologia. Ripeto quindi: è a quello tradizionale che fin dall’inizio mi sono ispirato.

Questo modo abituale e classico di scalare

è un alpinismo che, nell’atto di misurarsi a fondo con la grande montagna, mette alla prova tutto di se stessi: fisico, principi e sentimenti, senza risparmio alcuno. E questa, da me definita grande montagna, diventerà particolarmente austera e impegnativa proprio per la limitatezza dei mezzi tecnici che siamo disposti ad accettare per affrontarla. Ma la grande montagna sarà ancora più affascinante e gratificante se le riconosceremo un valore storico e un valore etico, oltre che estetico. Personalmente non potrei mai separare questi tre fattori, né prescindere da essi, poiché sono per me basilari. Mi sono a tal fine richiamato, e conformato, all’alpinismo degli anni Trenta, adottandone ovviamente le essenziali, nonché elementari e limitate attrezzature in uso a quei tempi. Ma perché avrei scelto così “anacronistiche” limitazioni rispetto alla mia epoca?

Non certo per perversione masochistica, bensì per poter conservare una inalterabile misura di comparazione, quella sorta di meridiano di Greenwich immutabile nel tempo e nelle condizioni, ossia la sola ed affidabile costante per arrivare ad un imparziale giudizio delle cose e anche di se stessi. Ecco dunque quella che io considero la giusta, leale regola del gioco da me scelto, una regola che mi ero imposto fin dall’inizio, e che ancora oggi sceglierei, proprio per garantirmi un legame e un sicuro accostamento con il passato cui sempre ho fatto riferimento.

Così impegnandomi sulle mie cime,

lo ripeto, ho potuto misurare a fondo me stesso rapportandomi a coloro che mi hanno preceduto e ho anche potuto mantenermi in sintonia con le condizioni fisiche e psicologiche già possedute nelle imprese del passato. Ho anche potuto valutare obiettivamente l’entità di ciò che sono riuscito a fare, rispetto a quanto fino ad allora si era saputo fare. Se, ignorando il passato, ci riferissimo soltanto al presente per giudicare l’alpinismo – un presente sempre più tecnicizzato, sempre più portato ad abbattere di una scalata le peculiari difficoltà, le incognite, spesso anche l’impossibile, dunque, un presente dove l’impresa alpinistica, il più delle volte, ha il solo merito di convalidare il successo dei mezzi tecnici impiegati – ebbene, io credo che non arriveremmo mai a formarci un giusto e sereno criterio per poter capire ciò che realmente è l’alpinismo; e questo per non aver appunto considerato ciò che in passato esso è stato nei suoi limiti e nelle sue motivazioni.

La montagna, così vissuta, mi aveva dunque donato più di quanto sperassi.

Ciò nonostante mi rendevo conto che fino ad allora ero stato “anche” alpinista e non soltanto alpinista. Infatti con gli anni avevo capito che la mia vera indole mi portava sempre più a vivere l’avventura nella sua espressione più vasta e universale. Dovevo quindi allargare i miei orizzonti ai trecentosessanta gradi di un mondo che mi era ancora quasi oscuro. Stavo dunque, trasferendo il mio alpinismo estremo, con tutte le sue componenti psicologiche, fuori dal suo ambiente verticale inserendolo in un contesto avventuroso almeno altrettanto estremo e, in gran parte, ancora da conoscere.

Avrei perciò affidato il senso della mia vita a un mondo ancora più vasto, poliedrico e culturale, dove il vero spazio costruttivo in cui muovermi sarebbe stato, soprattutto, quello della mente. Sentivo insomma che stava iniziando per me un momento di crescita. Dopo le grandi montagne un mondo vastissimo adesso mi attendeva. Sono stato da allora un po’ ovunque, alle prese con foreste, deserti, isole perdute, fondali marini, vulcani, latitudini ghiacciate oppure tropicali, nonché tra genti primitive, animali selvaggi, resti di antiche civiltà. Ed ogni cosa fatta è risultata per me la più bella e importante, la più ricca di sensazioni, perché ancora una volta avevo – intensamente – desiderato ognuna di queste esperienze prima di viverle.

Per l’occasione ero diventato giornalista,

inviato speciale dell’allora grande settimanale italiano Epoca (del gruppo Mondadori) e con carta bianca per realizzare, dove e come volevo, il mio “giornalismo estremo” e “introspettivo”. Ma come nasceva questa nuova avventura? Innanzitutto riesumavo le mie fantasie di bambino, le mie letture di ragazzo sulle quali avevo tanto sognato. Tutti a una certa età facciamo dei sogni su ciò che leggiamo: a questi sogni adesso io davo vita creandone il motivo dei miei viaggi.

Walter Bonatti

A quel tempo,

erano gli anni Sessanta e Settanta, dove io arrivavo era quasi sempre un’impresa, pochi erano stati in quei luoghi e pochissimo se ne sapeva. Devo anche dire che nelle esperienze vissute, non ho mai cercato la lotta contro qualcosa o qualcuno, uomo o animale temibile che fosse; la mia era bensì la ricerca di un punto di incontro con il mondo selvaggio, per meglio conoscerlo, assimilarlo e trasmetterlo con parole ed immagini agli altri. Questo è quanto ho inteso fare svolgendo il mio tipo di giornalismo, facendo capire al lettore che dietro al taccuino d’appunti, dietro la macchina fotografica c’era un piccolo uomo curioso e solitario con le sue emozioni.

È ormai chiaro a tutti che la natura primordiale mi affascina e mi attrae, istintivamente. Per questo sono entrato nei vulcani attivi e mi sono calato in quei crateri infuocati soprattutto per vedere come poteva essere fatta la Terra alle sue origini, per immaginare come doveva essersi presentata all’indomani della creazione, supposto che un uomo potesse essere là ad osservarla. Si può quindi immaginare quanta emozione, sorpresa e meraviglia può aver destato in me un paesaggio del genere.

Posso dire che a spingermi e a sostenermi

in ogni situazione vissuta, in ogni esperienza fatta dopo l’alpinismo, sono state le stesse molle che all’inizio mi avevano spinto sulle montagne “impossibili”. Nulla era cambiato. E in tutto ciò, la mia intenzione era stata sempre quella di conoscere e considerare, di provarmi e misurarmi, mettendomi il più possibile nelle condizioni di poter risvegliare in me quei moti d’animo, quelle doti d’altri tempi che certamente esistono ancora in tutti noi, anche se un po’ assopiti.

Volevo inoltre vivere al completo la libertà di sentirmi assolutamente sganciato da qualsiasi supporto tecnico e organizzativo che, al bisogno, mi avrebbe aiutato, rifornito, addirittura tolto da eventuali impicci. Naturalmente i luoghi e le situazioni da me scelti dovevano offrire tutti quegli ingredienti che potessero dar vita e senso logico alla mia avventura così come da me concepita.

Walter Bonatti

In tal modo, distaccato e lontano da tutto ciò che si può considerare evoluzione, posso dire di aver conosciuto il più delle volte un mondo ancora intatto dalle sue origini.

Sul mio cammino

ho incontrato animali selvaggi di ogni tipo e genti che nel corso dei millenni nulla avevano mutato nei loro costumi. Là, il sole e la pioggia, il nascere e il morire continuavano ad essere le uniche realtà che regolano la vita. Una sopravvivenza la loro, strappata tenacemente a una natura avara, che sovente respinge la vita. Uomini, questi, sicuramente ignari del resto del mondo che li ignora a sua volta.

Eppoi, in quelle terre estreme, immense e ancora senza storia, dove nulla muta, ma tutto si ripete in un ciclo eterno, ho vissuto paure e speranze, sconforti ed esaltazioni. Vi ho ascoltato gli assoluti silenzi, gli uragani, ho respirato i miasmi dei vulcani, gli umori delle giungle; nelle notti buie il mio sguardo ha accompagnato una pletora di stelle alla deriva e con la mente ho spaziato sognando impossibili orizzonti, fino a dare proporzioni umane agli infiniti, fino a confondermi nell’universo.

Adesso più che mai, sono convinto che la vita dell’uomo abbia un senso soltanto se vissuta in tutto quello che si ha dentro. E’ lì, nell’anima, che vanno creati i veri spazi.

Sul mio nuovo cammino

nei sei continenti non sono mancate tuttavia le grandi montagne. Ma resta sempre il Monte Bianco quello che più assiduamente ho ripercorso per valli e per creste. L’ho fatto come si torna al proprio padre, per dialogare, con tutto l’affetto e i ricordi che un figlio cerca nel genitore.

Volete sapere quale conclusione ho tratto dal mio intenso vivere errante? Ebbene, non sono ancora sazio di sognare quelle terre lontane. Sono sempre stati i loro grandi silenzi a sedurre la mia immaginazione.

About author

Roberto Gardino

Sono un insegnante di Educazione Fisica, appassionato di montagna, sempre alla scoperta di nuove mete. Ho fondato, con amici, la Compagnia della Cima. Sono attento all'educazione dei giovani, andando spesso in montagna con gruppi numerosi.

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