Intervista ad Armando Aste di Roberto Serafin in occasione dei 50 anni dall’apertura della Via dell’Ideale, quando l’alpinismo era una meravigliosa follia. Per conoscere di più Aste conviene guardare il sito a lui dedicato.
Vie di roccia “a goccia d’acqua”
oggi inesorabilmente passate di moda, tracciate negli anni Cinquanta e Sessanta, all’epoca dei chiodi a pressione. Scalate artificiali estreme, al limite del possibile, troppo dure per essere “normalmente” ripetute oggi in arrampicata libera. Direttissime su grandi pareti superate in A2, A3 e A4, a suon di chiodi, staffe e scalette, e poi abbandonate senza rimpianti. Acqua passata, ma fino a che punto? Il grande alpinista Armando Aste quest’anno può celebrare con orgoglio, a 87 anni, il cinquantennale della Via dell’Ideale tracciata dal 24 al 29 agosto 1964 con Franco Solina sulla Marmolada d’Ombretta dopo 54 ore di arrampicata e cinque bivacchi realizzando, nel corso della scalata, il documentario “La parete d’argento”.
“Lo so. Questa via, che a noi è costata tanto, potrà svilirsi, scadere. Essere ripetuta molto più velocemente…ora che l’abbiamo indicata agli altri diluendone l’ostacolo psichico”, scrisse nel suo libro autobiografico “I pilastri del cielo” (Nordpress, 2000) “Ma non mi curerò di quello che avverrà. Non mi curerò nemmeno molto di quello che si dirà per il fatto di avere usato chiodi a pressione. Finché la montagna mi darà quello che effettivamente mi dà, le disquisizioni più o meno accademiche circa i famigerati chiodi, mi lasceranno quasi indifferente. Sono tranquillo con me stesso.
“Per me, è l’azione che conta e vale ben più delle discussioni”.
Reinhold Messner fu il primo a ripetere questa via , (16-17 luglio 1966) con Sepp Mayerl, Heini Holzer, Heindl Messner. Oggi il grande alpinista roveretano conserva, insieme con un fisico asciutto, temprato in mille scalate, una memoria di ferro. Con Andrea Balossi alla telecamera gli avevo dedicato nel 2011 il cortometraggio, “Il tarlo”, sulla sua solitaria del 1960 alla via dei Francesi sulla Cima ovest di Lavaredo: un evento che ha segnato un’epoca, uno dei momenti più alti nella storia alpinistica delle Dolomiti. Come, del resto, sottolinea l’autorevole “Storia dell’alpinismo” di Gian Piero Motti pubblicata nei Licheni di Vivalda.
E come conferma, pure nei Licheni, Alessandro Gogna in “Dolomiti e calcari di Nordest”, osservando che fra tutte le salite di quegli anni, la via percorsa da Aste e dedicata a Jean Couzy sulla Nord della Cima ovest di Lavaredo “spicca per bellezza ed eleganza di esecuzione”.
Le immagini delle Torri del Paine, del Fitz Roy, dell’Eiger accolgono il visitatore all’ingresso della villetta di Aste alla periferia di Rovereto, e poi via via lungo le rampe delle scale. E nello studiolo di Armando compaiono la Nord della Civetta e la “parete d’argento” della Marmolada. Montagne della sua vita di scalatore la cui attività si è estesa anche alle montagne extraeuropee. Ma sotto il vetro che copre la scrivania, in bianco e nero, fa capolino la foto più emozionante: fissato su pellicola pancromatica da un amico di Rovereto, è il momento in cui sulla “Couzy” Armando sta per raggiungere due polacchi in cordata, e i tre scalatori appaiono soltanto dei puntolini spersi nell’infinità della parete.
“All’epoca”, racconta Aste, “quella mia solitaria alla via dei Francesi è sembrata a molti una pazzia. E ancora oggi mi rendo conto che di follia si è trattato. Però non ho dubbi: fu un’affascinante follia”.
L’idea della Via dell’Ideale
s’insinuava da tempo nella mente di Aste, allora trentanovenne, un reuccio del sesto grado, salito alla ribalta per la sua ricerca di itinerari logici ed elegantissimi, realizzati “tra incanti e tormenti”, dopo un’infruttuosa campagna sul Bianco. La sognava, osservando a bocca aperta la gigantesca parete convessa: non poteva che scendere, direttissima perfetta, fra la Vinatzer-Castiglioni e la Conforto-Bertoldi: una riga nera tracciata dall’acqua.
Poteva Armando Aste trovare lì, su quelle rocce, il suo limite?
“Ma no, in tutta questa vita di alpinista, mai sono arrivato al mio limite, che ancora non conosco. Ho sempre cercato di tenermi un margine. Dico la verità: mi fanno pena quelli che vogliono sapere fin dove possono arrivare. Perché poi, quando lo sapranno, non hanno più niente da scoprire. Meglio restare con il dubbio: chissà che cos’altro avrei potuto fare più di quello che ho fatto?”.
Ma come si concilia, chiesi ad Armando, la ricerca del rischio con la sua ben nota e rigorosa fede religiosa?
“Ho avuto la fortuna di avere nonni e genitori molto religiosi. Gente semplice, di campagna, che credeva fermamente: come in quel quadro di Monet in cui il contadino, in piedi con la sua zappa, sta recitando l’Angelus. La fede è quella cosa che dà il senso alla vita. Dopo tanto cercare e leggere sono arrivato alla convinzione che credere è più importante di sapere, di capire. Quando con la ragione arrivi davanti a un muro, la fede ti consente di attraversarlo.
La religione mi ha aiutato ma mi ha anche frenato.
Quando ho cominciato ad arrampicare da solo sono andato a discuterne con un sacerdote di Rovereto, monsignor Longo. E ho capito che, comportandomi con prudenza senza mai perdere il senso della misura, potevo restare in armonia con il mio credo. Perché so benissimo che la vita è un dono del quale dovremmo rendere conto. Il quinto comandamento dice di non ammazzare, ma non ammazzare nemmeno te stesso. Se ti sottoponi a un rischio oltre misura finisci all’inferno e non risali più in Purgatorio come Dante s’immagina. Io quando attaccavo una parete mi facevo il segno della Croce e dicevo: Signore, sono nelle tue mani. E sono più che mai convinto che quello che faccio mi è stato concesso dal Signore nella sua infinita onniscienza”.
Sponsor?
“E quando mai, la pacca sulle spalle di un amico mi bastava. Non sono mai andato da un giornalista a raccontargli che cosa stavo per fare. Arrampicare era una mia personale esigenza di superamento. L’alpinismo mi ha concesso di realizzarmi molto più del mio lavoro in fabbrica, che non mi ha mai soddisfatto. Avrei voluto studiare, quello sì. Ho fatto anche un corso di violoncello, ma a 14 anni sono andato a lavorare e ho dovuto smettere. Però come alpinista mi sono ugualmente sentito un po’ artista. Bepi Mazzotti si chiedeva se una nuova via di roccia possa essere considerata un’opera d’arte. Sì e no. Nella realtà questa via non esiste. Il vero capolavoro sta dentro di noi. Come lo scultore vede nel blocco del marmo la figura che vi è racchiusa e la isola liberandola dal superfluo, così lo scalatore vede la via che prima era confusa nell’insieme del monte, e la isola percorrendola e poi indicandola agli altri. Se guardo una via che ho tracciato provo un’emozione paragonabile a quando vedo un bel quadro”.
Ma adesso è vero che il bel giocattolo dell’alpinismo si è rotto?
“Be’, a questo siamo arrivati: a dissolvere la poesia dell’alpinismo, tutto essendo imperniato sul tecnicismo. Ti dirò, se oggi arrampicassi lo farei con lo stesso spirito di allora. Ho avuto la fortuna di vivere il periodo storico più bello, perché la mia generazione è l’anello di congiunzione tra l’alpinismo dei mostri sacri Carlesso, Gervasutti, Comici, Detassis e quelli venuti dopo: come Livanos, Mazeaud, Maestri. L’alpinismo a quei tempi era sinonimo di avventura. E oggi? Sull’Everest è salito un migliaio di persone, come può più essere il tetto del mondo di una volta? Quando è stato debellato l’ostacolo psicologico, di una scalata rimane soltanto la parte eminentemente atletica. Oddio, un po’ di avventura c’è sempre, ma se hai centomila euro a disposizione, se il fisico è a posto, la vetta dell’Everest è assicurata. Non può però più dirsi un’avventura, è una prestazione pura e semplice. Chi si accontenta, gode”.
Affezionatissimo ai suoi compagni di cordata, Aste lo è sempre stato.
“Il primo vero compagno è stato Fausto Susatti, accademico di Riva del Garda, che ha perso la vita nelle Pale di San Martino. Morto lui, ho trovato Angelo Miorandi e poi Franco Solina. Ho scalato anche con Millo Navasa, grandissimo alpinista, un tipo originale, a volte sboccato, ma un ragazzo meraviglioso. E poi con Mario Frizzera compagno di Feo Maffei”.
“Ma il compagno che la Provvidenza ha voluto assegnarmi nel periodo migliore della mia vita”, continua a raccontare, “è stato Sergio Solina al quale voglio bene come a un fratello. Quando sulla Marmolada tracciammo nel 1964 la Via dell’Ideale, dopo 54 ore di arrampicata e cinque bivacchi, a un tiro dall’uscita trovammo un bel terrazzino e lì restammo a lungo in contemplazione chiedendoci chi ce lo facesse fare di andarci a rinchiudere in un rifugio”.
Ideale è un termine che Aste usa spesso, e ideale appare anche il bilancio della sua vita.
Ma c’è qualcosa di cui Armando sente di doversi rimproverare?
“Intendiamoci, certe cose in alpinismo le ho fatte prima di sposarmi perché, sai, io non capisco come uno sposato con bambini piccoli possa andare a rischiare la vita. Capisco l’ansia, il desiderio di esprimerti che ti divora, il volere a tutti i costi accontentare il proprio orgoglio, la propria passione. Ma bisogna pensare prima ai figli e alla famiglia. Rispetto tutti, ma io l’ho sempre pensata così. A mia moglie stracciavo il cuore qualche volta. E ho fatto soffrire anche mia madre che, poveretta, non apriva bocca mentre mi preparava lo zaino, e quel suo silenzio era più eloquente di qualsiasi discorso. Ma all’epoca non mi rendevo conto di essere un egoista. Lo ho capito dopo. Le cose, quelle più importanti, si capiscono sempre in ritardo, quando non c’è più tempo. Mio padre si limitava a dirmi di stare a casa che l’è mejo”.
L’alpinismo è stato indubbiamente il primo grande amore della sua vita.
Ascoltiamo ancora le sue parole. “Bòn, mio padre era uomo di montagna, da giovane faceva il contadino. Poi ha studiato, è diventato un esattore. Io sono stato allevato da mio nonno in un maso di montagna, la passione per l’avventura mi è venuta lì, ma probabilmente l’avevo già dentro. Facevo lunghe camminate da solo quando, casualmente, ho incontrato gente che arrampicava in falesia. Guardavo bene come facevano standomene accuratamente nascosto perché mi vergognavo di stare lì a spiarli. Poi quando se ne andavano, non visto, ripetevo i loro gesti. Ma lo facevo con naturalezza perché fin da ragazzo ho sempre fatto ginnastica, ero dunque fisicamente preparato a cimentarmi anche nell’arrampicata”.
Recentemente Aste ha dato alle stampe, con il contributo dell’editore Bepi Pellegrinon, il suo quarto libro, “Commiato”, “riflessioni conclusive di un alpinista dilettante in congedo” (Nuovi Sentieri, Belluno 2013. pp. 93 con foto b.n.). Ha realizzato diversi documentari, ora affidati alle civiche raccolte di Rovereto dove è considerato uno dei cittadini più illustri.
“E’ vero, sono stato profeta a casa mia, mentre a Trento, che dista solo 25 chilometri, mi sarei aspettato qualche riconoscimento in più. Non che la cosa abbia però molta importanza. Io ho sempre arrampicato per me stesso, non per gli altri. Era una mia esigenza e basta. Il mio era ancora un alpinismo ideale, pieno di poesia. E tanto mi basta”.