Il rocciatore premio Nobel, intervista a Michael Kosterlitz di Enrico Martinet pubblicata su “La Stampa” in cui afferma: scalo le Alpi perché ci sono.
Se il pragmatismo avesse un volto sarebbe quello di Michael Kosterlitz. Le sue risposte sull’alpinismo e l’arrampicata sono identiche a quelle di George Mallory nel 1924 alla vigilia del suo tentativo sull’Everest: «Perché ci vado? Perché è lì».
Logico e disarmante. Kosterlitz, Nobel per la fisica lo scorso anno, venerdì è stato premiato come «leggenda» dell’arrampicata al Rock Master di Arco. È lui il nuovo ambasciatore di questo evento che è l’anima dell’arrampicata sportiva in Italia ed è riferimento per tutti gli scalatori del mondo. Kosterlitz, il fisico della «materia esotica», si è innamorato delle montagne «perché sono lì e le ho viste».
Pragmatismo di uno scozzese, scienziato e professore in Usa, che per primo ha ripetuto al Petit Dru, versante francese del Monte Bianco, la direttissima degli americani sulla parete Sud-Ovest. Poi, quasi per caso, si è infilato sulla Nord-Est del Badile, è andato su dritto pensando di ripetere la via di Corti e invece ne ha aperta una straordinaria, al pari di quella di Riccardo Cassin.
Ma il suo nome, ed è uno dei motivi della sua investitura del Rock Master di Arco, è legato alla salita di una fessura di sette metri che spacca in due un masso di gneiss nella Valle dell’Orco, in Piemonte. Da allora la chiamano con il suo nome e ogni scalatore che vuole avvicinarsi sul serio al boulder, cioè all’arrampicata sui massi, deve sfidare le proprie capacità con quella fessura. «Ma sul serio?» domanda meravigliato il Nobel che, colpito da una malattia neurologica, ha dovuto lasciare scalate e alpinismo.
Ricorda quella salita sul masso all’inizio degli Anni ’70?
«Certo. Ero con Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi e stavamo andando lassù. Ad un certo punto ho visto quel masso con la spaccatura e ho detto ferma, ferma. Sono sceso e mi sono messo ad arrampicare. Tutto qui. La fessura era lì e io l’ho salita».
Sa che per parecchi anni non è stata ripetuta?
«Mi pare impossibile»
Quanto le è rimasto di quella esperienza nella Valle dell’Orco?
«Tanto da poter dire wow».
Per anni non ha più voluto parlare di montagna.
«È stato un dolore per me non poter più arrampicare».
Solo passeggiate sui sentieri?
«No. Lontano dalle montagne, scelgo altri viaggi. Mi rattrista vederle e basta».
La roccia per lei è stata quasi un’ossessione?
«Sì. La mia settimana era divisa in due giorni per arrampicare e cinque per studio e lavoro».
Perché questa passione così forte?
«Mi sono sempre chiesto il motivo di questa attrazione dei britannici per la montagna, forse perché nell’isola non ci sono, solo pareti e neppure così alte».
In questi giorni lei ha guardato i giovani sfidarsi sulla parete artificiale del Rock Master. Che ne pensa?
«Bello. Vorrei provare, arrampicare, se potessi».
Esiste una relazione tra l’arrampicata e la fisica?
«Affronta l’ignoto e fai quello che puoi».
E il tempo? Si dice che non esista, anzi lo dicono alcuni fisici teorici come lei. Forse sparisce mentre si arrampica?
«Quando scalavo spariva tutto. Ero concentrato su cosa dovevo fare e pensare a non cadere, a non morire. In quel momento non esiste niente. Il tempo c’è, potrebbe essere un profondo cambio di stato della materia, ma è una questione complessa e direi anche filosofica. Possiamo dire che può essere ininfluente. È una disputa tra matematici e fisici sperimentali. Gli uni o gli altri si sbagliano».
L’arrampicata sportiva è diventato sport olimpico. Le prime medaglie a Tokyo nel 2020.
«Non mi sorprende che sia diventato uno sport olimpico. Ne sono molto contento, ho sempre pensato che meritasse questo riconoscimento, ma non pensavo che avesse lo sviluppo di oggi».
Si parla molto di rischio nell’alpinismo.
«In Himalaya molti vanno oltre il proprio limite e muoiono. Ma si può evitare il rischio, se sei al limite o il tempo cambia torna indietro. Banale ma efficace».
Un messaggio per chi arrampica?
«Se ti piace, continua».
- Intervista a Michael Kosterlitz – Scalo le alpi perché ci sono